Chiaro di Luna

Cammino in questa strada insolitamente deserta e ascolto il vociare del vento, che schiaffeggia leggero i miei capelli e spinge le foglie ormai secche, obbligandole a capriole e movimenti che osservo in modo distratto. La primavera è alle porte: è il profumo e la leggerezza che respiro a darmene la prova, è il bisogno e la voglia di uscire che mi hanno spinto ad andare alla ricerca di qualcosa che ancora non so. Il campanile, con i suoi rintocchi pesanti, spezza la monotonia di un silenzio che sto imparando ad apprezzare. Mi soffermo alcuni istanti davanti a una vetrina, ma non vedo nulla all’interno e mi sembra giusto così, non mi faccio domande, ma mi ostino a osservare la mia immagine vagamente riflessa, in cui cerco i miei lineamenti approssimativi, ma riconoscibili: la barba, gli occhiali e poco altro. Un cane, passando al mio fianco, abbaia e il mio cuore di colpo precipita nello stomaco, colorandomi le guance di fuoco.
– Che vuoi da me, vattene!- gli grido cercando di scacciare la paura. Cambio direzione e allungo il passo. Mi giro: è sparito e mi sento più tranquillo, ora. La luna fa capolino fra i tetti delle case e illumina sicura i miei passi. In lontananza, un pianoforte sembra volermi attirare nella sua direzione. È una melodia stupenda quella che passo dopo passo si fa sempre più corposa, più chiara: è un notturno di Chopin, lo riconoscerei fra mille. Una coppia di giovani amanti si bacia davanti a un portone e non si accorge di me e dello scricchiolio delle mie scarpe di cuoio sul lucido ciottolato. Le note di Chopin, via via più intense e vibranti, si mischiano al mio respiro ora affannoso e al tamburellare del mio cuore. La via che sto percorrendo sfocia finalmente in una grande piazza, dove un capannello di persone mi impedisce per ora di vedere chi sta suonando. Mi avvicino e cerco di mischiarmi alla folla, che sembra creare un muro invalicabile. Intanto la melodia incalza con il suo andamento sognante, libero di vagare, di creare emozioni, di far venire i brividi.

– Permesso, scusi mi fa passare?- chiedo gentilmente a uno dei tanti spettatori di questo magico momento che però pare non udire la mia richiesta, tanto è assorto in ciò che sta ascoltando. Non mi dò per vinto, anche perché sento inspiegabilmente crescere la bramosia di vedere in faccia chi sta accarezzando con tanta passione i tasti di quel pianoforte. Mi sposto di qualche metro e cerco un varco salendo i due scalini del sagrato della basilica che domina la piazza.  Ora riesco a vedere qualcosa: sembra una ragazza, ma non la riconosco anche se ha qualcosa di vagamente famigliare. La melodia intanto scorre sicura e morbida come velluto, accompagnando le note in un crescendo vorticoso e intenso, verso quel finale che da sempre mi emoziona. Chiudo gli occhi e mi lascio avvolgere dalle sensazioni, che prive di una logica e libere da ogni tipo di schema, mi stordiscono, proiettandomi in una sorta di mondo parallelo, dal quale mi riprendo troppo tardi: la ragazza è sparita e con essa gran parte della gente che l’ascoltava.

-Che fine ha fatto? Qualcuno mi sa dire dov’è finita la ragazza che stava suonando?-  sento la mia voce morirmi in gola, non odo le mie stesse parole e pare che le persone intono a me addirittura non mi vedano. Mi guardo intorno, la cerco in mezzo alla folla che in modo disordinato abbandona la piazza. Sembra sia stata inghiottita dal buio della notte che ormai è calata sulla città, i cui contorni assumono colori irreali, falsati dal chiarore della luna. Mi sembra di vederla ora allontanarsi schiva, lo sguardo basso, le mani in tasca. Tento di avvicinarla, ma mi sfugge e, non so come, la perdo di nuovo.

Un’intera giornata è volata via e i contorni e le ombre riprendono lentamente le forme e i colori della notte appena trascorsa. Non so perché, ma non ricordo nulla del mio recente passato, se non le note corpose e cariche di emozione di quel pianoforte.

Sono nuovamente in piazza, seduto sugli scalini della basilica, ma non c’è nessuno. Un uomo anziano si avvicina lentamente, appoggiato al suo bastone, e mi guarda con fare indagatorio. Si ferma e continua a osservarmi come se mi conoscesse.

– Aspetti la ragazza del pianoforte?- mi domanda con un tono tanto burbero, da rendere la mia risposta incerta e scricchiolante.

-Si; perché, lei la conosce?-

-No, non la conosco, ma l’ho sentita suonare proprio in questa piazza. Forse suonerà anche stasera, chi lo sa.-

Si avvicina e si siede al mio fianco, appoggiando con cura il bastone a terra. Sembra aver tutto il tempo a sua disposizione per aspettarla, per godere ancora una volta di quella melodia che lo ha spinto a cercarla.  Le sue mani luride e tremanti raccontano di una vita vissuta, di tanta fatica e altrettanta solitudine. I suoi occhi malinconici, sembrano aspettare un raggio di sole per tornare a sperare. Lo osservo nei suoi movimenti lenti e incerti e scopro di conoscerlo da sempre. Lo guardo negli occhi che all’improvviso si affacciano su un oceano immenso di ricordi e rimpianti.

– Ciao nonno! Quanto tempo è passato! Ma dove sei stato? Stai bene?- Non odo la sua voce che ricordo a fatica e che lentamente muore nello spazio e nell’aria che si impregnano di quelle note che tanto aspettavo, ma ritrovo nel suo sorriso e nella sua carezza il gesto che mancava da troppo tempo. Mentre mi perdo nell’azzurro di quegli occhi espressivi e gonfi di ricordi, le note disegnate da Chopin riprendono a danzare nell’aria leggera di questa notte di inizio primavera e rimango di nuovo  ingarbugliato nelle emozioni che la musica, come un mare calmo, restituisce alla riva della mia anima. La piazza nel frattempo si è riempita di gente che ascolta in silenzio, rapita dalla maestria con cui quella ragazza, di cui ancora tutto mi è ignoto tranne la sensazione di conoscerla, torna a suonare lo stesso notturno che continua a regalarmi emozioni forti al punto da non riuscire a contenerle. Il pianoforte appare ora lontano, irraggiungibile, eppure la musica arriva decisa alle mie orecchie: mi par quasi di sentire il respiro di quella ragazza, il suo profumo, il suo pensiero.

Mio nonno intanto se n’è andato, non so quando e neppure dove, ma quello che so è  che ha di nuovo lasciato un vuoto in me che difficilmente riuscirò a colmare. Mi guardo intorno e capisco subito che mi sarà impossibile ritrovarlo. Decido di concentrarmi su di lei, su quella ragazza che con la sua musica mi sta prendendo per mano e mi sta conducendo di nuovo in un luogo senza tempo, un luogo privo di consistenza, slegato dalla realtà che mi circonda e che lentamente sento allontanarsi e svanire, lasciandomi solo ed esausto sulla riva di quel mare colpito da una burrasca di emozioni.

– Vuoi conoscere il tuo futuro, signore? – Una voce profonda e poco femminile mi distrae e mi colpisce al tempo stesso. È un’anziana zingara, le cui unghie lunghe poco curate e la quantità incredibile di anelli, attirano la mia attenzione. – Avanti vieni che ti racconto il tuo futuro!- Il suo modo di muovere le mani e i suoi occhi spiritati mi spaventano, ma non so per quale ragione la seguo e mi siedo dinanzi a lei che sta già disponendo le carte in una strana maniera, per me incomprensibile. Non parla e osserva con espressione seria e corrucciata le sue carte, che a quanto pare le stanno raccontando il mio futuro.

– Cosa vedi? Avanti non farmi stare sulle spine, raccontami ciò che dicono le tue carte!- L’anziana donna sospira profondamente ed accenna un sorriso che mi fa ben sperare. La sua pelle rugosa e scura, le sue dita ossute e la sua lunga veste, le conferiscono un alone di cupidigia e di mistero. Non mi fido di lei, ho paura di quello che potrebbe dirmi ed allora, senza pensarci due volte, decido di scappare. La sedia cade a terra facendo un rumore stridulo e terribile e subito le sue grida mi spaventano a morte. Inizio a camminare sempre più velocemente, finché mi ritrovo a correre.

– Dove scappi stupido! Lascia che ti dica il tuo futuro!- L’eco della sua risata rimbomba nelle mie orecchie lasciandomi una sensazione sgradevole che cerco in tutti i modi di scacciare. Intanto la folla intorno al pianoforte applaude a quel finale ricco di emozioni, che riesce a farmi dimenticare quella zingara e il grottesco suono della sua risata.

La ragazza del pianoforte, anche questa volta, lascia che le ultime note di Chopin si dissolvano al chiaro di luna ed alzandosi, accenna un timido inchino che scorgo a fatica fra le figure ingombranti e scure, che anche questa volta mi impediscono di vederla in faccia. Mi ostino a cercare i suoi occhi, il suo sguardo. Questa volta non mi deve sfuggire, le voglio parlare, voglio capire chi sia.

Ma ecco che finalmente si incammina nella mia direzione, facendosi largo fra la folla che la osserva con ammirazione. Sembra non vedere nessuna delle tante mani che la sfiorano, sembra non udire le voci che la acclamano, che la spingono a suonare di nuovo. Finalmente mi guarda negli occhi ed il resto intorno a noi perde consistenza e colore. Finalmente il mistero è risolto. La ragazza ora mi sorride e io non posso che accoglierla, in un abbraccio senza confini.

– Ciao papà, ti stavo aspettando….-

– Ma io sono qua da sempre Stefy, piccola mia.- mentre parlo con mia figlia, con il cuore gonfio di felicità per averla finalmente ritrovata, un suono in lontananza sovrasta le mie parole al punto da renderle incomprensibili e vane. Innervosito da questo suono logorroico e stridulo mi agito, mi divincolo da lei che incomprensibilmente vuole tenermi fermo come se avesse paura che scappi…di nuovo.

Poi, lentamente, nei miei occhi, una luce verde, quella  della mia sveglia che continua a trillare senza sosta e che mi riporta traumaticamente alla realtà che fatico ad accettare.

Sono le 7.30 e i primi raggi di sole attraversano timidamente le persiane, colorando il pulviscolo che galleggia danzando nella stanza. Mi stropiccio gli occhi ripensando al sogno che ho visitato, a Stefy e a quella melodia che tanto amavo quando era lei a suonarla. Sul tavolino posto in un angolo accanto alla finestra, oltre alla lampada stile liberty e alle solite scartoffie, riconosco l’album di fotografie che stavo guardando con nostalgia la sera appena passata, poco prima di addormentarmi. Penso a quanto sarebbe bello poter tornare indietro, rimediare ai miei tanti sbagli, riempire quei silenzi pesanti fra noi. Mi manca la sua voce, il suo sguardo, le sue carezze che ho imparato ad amare quando ormai era troppo tardi. Cammino verso la cucina e passando per il soggiorno, vedo il pianoforte. Mi avvicino e accarezzo quei tasti come fossero le sue mani e mi accorgo che mi manca, che la mia vita è vuota senza di lei, che la primavera che si affaccia alle mie finestre, non ha gli stessi colori, gli stessi profumi. Vorrei chiamarla, ma il mio stupido orgoglio mi frena, come sempre. Penso che forse non è poi tutto perso, che potrei ancora chiederle di ricominciare, che dopotutto anche un genitore può sbagliare. Potrei decidere di rimanere per sempre sulla soglia della sua vita ad aspettare qualcosa che forse non accadrà mai, oppure  potrei comporre il suo numero di casa che a malapena ricordo, e sperare che risponda. Dalla finestra osservo la vecchia altalena mossa dal vento e dai ricordi e capisco che è arrivato il momento di chiamarla.

Il telefono squilla e io rimango in attesa convinto di non dir nulla, ma di stare ad ascoltare la sua voce.

-Pronto chi parla?-

Silenzio, sono paralizzato, il cuore batte a mille. Penso che non posso lasciarla scappare di nuovo, ma ho un nodo in gola che mi strozza le parole. Stefy aspetta che qualcuno si decida a parlare, a riempire questo ennesimo silenzio fra noi e io non posso che aggrapparmi a quel sottile filo che ancora ci lega e che ancora mi tiene in vita.

-Ciao Stefy, sono papà… –

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